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PAQ on FAQ (Professionals Answer Queries on Frequent Accessibility Questions): part II

Introduzione

Nella prima parte di Paq on Faq abbiamo esaminato in modo divulgativo alcuni aspetti normativi della Legge Stanca. In questa parte, affrontiamo altri aspetti, di carattere più culturale che scientifico. In altri termini, la legge Stanca riguarda l'accessibilità ma rimanda all'usabilità e il Codice dell'amministrazione digitale parla addirittura di 'elevata usabilità'. Ci è parso che si dovesse parlare anche di questo, poiché che cosa voglia dire usabilità a proposito di siti web non siamo riusciti a capirlo, in particolare da chi usa questa parola nei suoi testi. Di conseguenza, ci proviamo noi.

Spallino. Nella legge Stanca e nei documenti collegati ricorre molto spesso il termine ‘usabilità’. E' possibile dare una valida formulazione teorica di usabilità?

Acerboni. Premesso che non sono un professionista dell’usabilità, dirò che la norma ISO 9241 (del 1993) definisce l'usabilità come il "grado in cui un prodotto può essere usato da particolari utenti per raggiungere certi obiettivi con efficacia, efficienza e soddisfazione in uno specifico contesto d'uso". Questa definizione vale per gli artefatti informatici in generale, cioè per un computer, un software, un sito ecc.

Spallino. è chiaro che tale definizione si applica bene ai software. Ma è egualmente valida per internet? E in caso di risposta negativa, qual è la definizione di usabilità in questa ipotesi?

Acerboni. Questa definizione è valida per quel che dice. E dice che l’usabilità è la misura della qualità di un artefatto a farsi utilizzare. In altri termini, l’usabilità misura la differenza tra il modo scelto dal progettista di presentare le cose e il punto di vista dell’utente su quelle medesime cose. L’usabilità è dunque un’analisi (una delle molte che si possono compiere) di un prodotto finito. Il campo di validità non è specificato dalla definizione di usabilità. La validità della definizione, dunque, è generale. Ogni campo, poi, richiederà specifiche particolari. Di un oggetto, come un mouse per esempio, si misura l’usabilità con criteri diversi da quelli che servono per misurare l’usabilità di un sito. Il problema è che con Internet si è fatta molta confusione. Molti pensano erroneamente (e alcuni lo scrivono) che l’usabilità, in ambito web, sia una scienza o una metodologia di progettazione. Non so né mi interessa sapere quali siano le cause di questa confusione. Penso che un ruolo in questo senso l’abbia avuto, suo malgrado ovviamente, Jakob Nielsen, che ha declinato per il web il concetto di usabilità e l’ha diffuso grazie ad alcuni libri molto fortunati e a una serie di linee guida che, quando apparvero intorno al 2000, innovarono parecchio il modo di progettare i siti. Ma prescindiamo da Nielsen (e soprattutto dai suoi discepoli, traduttori, divulgatori): l’usabilità non è una scienza, non è una metodologia e non si applica alla progettazione di un sito, essendo una tecnica che misura la relazione di un utente con un sito. Per misurare la qualità di questa relazione, il sito deve esistere. La progettazione viene prima e l’usabilità dopo.

Spallino. Qual è la differenza tra usabilità e progettazione?

Acerboni. Progettare un prodotto editoriale quale un sito è significa equilibrare moltissime variabili. Ci sono i contenuti, che devono essere scelti, classificati, collegati, riscritti. Si deve creare un contenitore grafico, cioè uno spazio dove le ripartizioni logiche siano percepibili visivamente e possibilmente in modo gradevole. Si deve pensare alle caratteristiche tecnologiche (database, pagine statiche, animazioni ecc.) più adatte al contenuto e al destinatario. Questi tre aspetti si condizionano reciprocamente, e in corso d'opera. Tanto è vero che in partenza nessuno sa esattamente come il sito verrà. Tranne i dilettanti, che fanno tutto da soli. D'altra parte, solo un dilettante, cioè un professionista in qualcosa ma non in tutto, può fare un sito da solo. Un sito professionale, quale un sito dell'amministrazione pubblica, deve essere progettato da professionisti diversi, che lavorano in gruppo: il grafico fa il grafico, il programmatore fa il programmatore, il gestore dei contenuti fa il gestore dei contenuti, il redattore fa il redattore, il responsabile del progetto coordina il lavoro degli altri. Mi pare del tutto evidente che l'usabilità non dica assolutamente nulla su questo processo. Faccio un esempio, e mi riferisco agli aspetti di questo processo che mi competono. La classificazione dei contenuti richiede in primo luogo competenze cognitive, tali per cui si deve sapere che un cane è un mammifero a quattro zampe, e che a questo livello non si distingue da un gatto, un leone e una pantera. In secondo luogo, però, ci vogliono anche competenze comunicative, cioè quelle in base alle quali si deve decidere quale classificazione è migliore per un altro. Infatti, per un bambino di tre anni io devo classificare i cani non fra i mammiferi a quattro zampe, bensì tra gli animali amici dell'uomo, quindi lo metterò insieme al gatto ma non al leone e alla pantera. In terzo luogo, bisogna avere competenze linguistiche, cioè saper trovare le parole giuste per definire i livelli. Il che è difficilissimo, per due ragioni. La prima, che nessun sistema di classificazione è completamente coerente al suo interno, perché la realtà è troppo complessa rispetto alla nostra capacità di descriverla. La seconda, perché la lingua italiana non è detto che offra tutte le parole che si prestano senza ambiguità a esprimere quella logica. In quarto luogo (e questo è il punto che i cosiddetti architetti dell'informazione non riescono a comprendere), occorre pure sapere che la classificazione, persino quando è ben fatta (il che non è affatto ovvio, anzi), non è il miglior modo di navigare un sito. Si vada sul sito della Banca d'italia e si consideri a) se la classificazione è ben fatta; b) laddove è ben fatta, se è efficace. Personalmente, penso che "Interventi e comunicati", "Pubblicazioni", "Statistiche" e "Ricerca" siano stati classificati o nominati male, perché "Pubblicazioni" li potrebbe comprendere tutti. Ma se anche la logica fosse giusta, bisognerebbe poi vedere se sia efficace, cioè se il navigatore trova subito quel che cerca laddove pensa che sia stato classificato, o se riesce a escludere subito che quel che cerca non c'è. Con tutti quei pulsanti (dodici) per giunta circolari, il navigatore perde tempo e - ne sono certo - clicca a vuoto e a lungo. Era solo un esempio, su un solo aspetto della progettazione, ma mostra chiaramente che l'usabilità c'entra molto limitatamente con la progettazione, perché i problemi che deve affrontare un progettista sono molto più numerosi di quelli che l'usabilità misura.

Spallino. E i test di usabilità?

Acerboni. Ecco, quel che può servire in sede di progettazione sono, appunto, i test di usabilità, cioè delle verifiche compiute da un campione di utenti a cui si chiede di svolgere determinati compiti su un prototipo del sito. Queste verifiche possono rivelare che il sito può essere migliorato e dove e come. La qualità di questi test dipende in primo luogo dalla rappresentatività del campione di utenti, in secondo luogo dalla qualità del questionario, e in terzo luogo dalla capacità di analisi delle risposte. Dunque, per compiere i test di usabilità sono necessarie competenze non banali nelle scienze statistiche e cognitive (a parte quelle di Nielsen, che considero più superficiali di quello che vorrebbero essere, non mi sono note pubblicazioni serie su questi benedetti test di usabilità dei siti: moltissimi ne parlano, alcuni addirittura ne scrivono dando per scontati i metodi, i questionari, le analisi, le relazioni a monte e a valle con la progettazione del sito ecc.; ma io vorrei vedere pubblicazioni in cui metodi, questionari e relative analisi vengono discussi scientificamente o quanto meno seriamente). Personalmente ci credo poco ai test di usabilità. In primo luogo per ragioni pratiche: un gruppo di lavoro che contempli tutte le professionalità necessarie anche ai test di usabilità costa molto. In secondo luogo, perché ritengo che i progetti di comunicazione scritta (e i siti fondamentalmente lo sono, almeno i siti istituzionali e delle pubbliche amministrazioni) siano per definizione ad alto rischio di efficacia. Dunque, d’accordo far ‘correggere le bozze’ a un campione di lettori, ma è necessario saper progettare. E l’usabilità, in questo, serve a poco. Anzi, dirò di più: tanti più errori un test di usabilità trova, tanto meno il progettista è bravo. Per conto mio, ho potuto fare tranquillamente a meno della parola ‘usabilità’ in tutto il libro Progettare e scrivere per internet (McGraw-Hill), che illustra per l’appunto una metodologia di progettazione di un sito.

Spallino. Il Codice dell’Amministrazione Digitale introduce il principio della accessibilità ed usabilità dei siti internet delle pubbliche amministrazioni, sia pure centrali. Per l’accessibilità è ragionevole ritenere che si farà riferimento alla legge Stanca. E per l’usabilità, anzi per l’”elevata usabilità e reperibilità”? A cosa si farà riferimento?

Acerboni. Gli unici principi di usabilità che vedo sono quelli dell’ISO: ‘efficacia’ ed ‘efficienza’ (in verità la norma ISO parla anche di 'soddisfazione' dell'utente. La quale mi pare ancor meno utile delle altre due in fase di progettazione. Quindi lasciamola stare, almeno qui). Efficacia ed efficienza sono concetti ‘astratti’ e non sono molto utili per la progettazione e la realizzazione di un sito ‘usabile’, anzi ‘altamente usabile’. Infatti, che cosa significano, in pratica, per uno che sta pensando a come fare un sito, parole come ‘efficienza’ ed ‘efficacia’? Provo a definirli in modo molto semplificato: è efficace un testo o un sito decodificabile, comprensibile senza uno sforzo eccessivo (cioè è facile da usare, da leggere); efficiente è un testo o un sito che ottiene lo scopo per cui è stato realizzato (cioè la comunicazione è andata a buon fine). Sono due concetti difficili da intendere e da distinguere. Non credo che qui valga la pena approfondire. Il punto, però, è che sono due concetti che si possono applicare solo a un prodotto esistente, a un artefatto, a un sito che esiste, non a un progetto. Dunque, dobbiamo capire come si può operare per ottenere un sito efficace ed efficiente. Cioè, come deve essere fatto un sito per essere ‘efficace’ ed ‘efficiente’. Qui sta il punto, e su questo punto l’usabilità non dice niente di preciso, perché serve a misurare un sito quando è fatto e non a farlo.

Spallino. Le linee guida non servono a niente?

Acerboni. Se pensiamo a come venivano fatti i siti prima che Nielsen diventasse famoso, cioè grosso modo nel 2000, dobbiamo riconoscere che le centinaia di cosiddette linee guida (derivate dall'esperienza dell'usabilità) e le cosiddette euristiche di valutazione che ne sono state ricavate sono serviti parecchio a migliorare i siti. Ma siamo rimasti fermi lì a livello concettuale, mentre c'è ancora molta strada da fare. Le linee guida, i buoni consigli di usabilità possono essere e sono ancora utili, ma costringono chi progetta a tre sforzi cognitivi: a) costruire un metodo passo passo per rispettare ogni singola linea guida; b) verificare se le linee guida disponibili siano tutte utili ai suoi scopi, o se avrebbe bisogno di altre indicazioni; c) costruire un metodo per fare in modo che il rispetto di ogni singola linea guida sia compatibile con lo scopo finale di fare un sito comunicativamente valido. Quest'ultimo punto è molto importante. Forse non abbiamo riflettuto abbastanza sul fatto che rispettare ogni singola linea guida non significa automaticamente che il sito sia un buon sito. Non è affatto detto che il valore di tante pietre preziose sia uguale al valore del gioiello ottenuto con quelle pietre. A volte il gioiello vale come la somma, altre volte (sperabilmente) vale di più, altre volte vale di meno, perché le rovina (quest'ultimo caso mi pare il più frequente nei siti italiani). Fuori dall'esempio: è così ovvio che l'ottima idea di dare al navigatore in ogni momento della navigazione la possibilità di controllare lo stato del sistema sia armonizzata con l'altra ottima idea di creare pagine tra loro coerenti o di scrivere testi leggibili? Un sito non è un buon sito se rispetta tutte le buone idee, ma se, rispettando tutte le buone idee, è anche un oggetto in se stesso valido. In altri termini, ci vuole un principio ordinatore di tutte le buone idee. Questo principio io lo chiamo metodo. Per progettare serve un metodo. Per ottenere il rispetto delle linee guida utili serve un metodo. Per fare un sito usabile serve un metodo. L'usabilità non è un metodo.

Spallino. Che cosa manca all’usabilità per essere un metodo?

Acerboni. L’usabilità non ha lo scopo di essere o di divenire un metodo per progettare siti. Al massimo, grazie all'esperienza di alcuni usabilisti, come Nielsen, ha fornito ai progettisti alcuni buoni consigli. Tuttavia, sorvolando su questo e accettando per un momento l'idea che l'usabilità fornisca o possa fornire un metodo’, direi che manca di concretezza e chiarezza su ciò che si intende per sito usabile, cioè sito che reagisca bene all’interazione con il navigatore. Io non riesco a vedere indicazioni metodologiche nella somma di tanti buoni consigli, gran parte dei quali tecnici. Le linee guida infatti riguardano, coerentemente con il fatto di essere legate all'usabilità, i punti d'arrivo di un progetto. Certo che possono essere tenute presente sullo sfondo anche in fase di progettazione, per evitare alcuni errori. Ma ben altra cosa dalle euristiche è un metodo, che riguarda il punto di partenza. Un metodo infatti è un insieme coerente di regole, comportamenti, procedure, categorie che permette a chi lo usa di compiere delle scelte in base a criteri solidi e non in base al caso, al gusto personale, al consiglio di un amico o, come spesso accade nel web italiano, in base alle mode o, peggio ancora, al criterio di donna Prassede: "tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il suo cervello".

Spallino. Usabilità e progettazione di un sito sono dunque due mondi diversi?

Acerboni. Sì, sono due mondi diversi, che si possono incontrare su alcuni aspetti della progettazione (l’usabilista fa il consulente del progettista), ma non certo sugli aspetti dell’usabilità, perché a) nessun usabilista è in grado, per il solo fatto di essere un usabilista, di progettare un sito; b) un usabilista non è particolarmente interessato a questo aspetto della comunicazione, come si evince dal libro Towards CyberPsychology. Mind, cognition and society in the internet age, curato da Carlo Galimberti e Giuseppe Riva, IOS Press, Amsterdam, 2001, che è a mio parere il miglior libro prodotto da italiani sui temi propri dell’usabilità, e che guarda caso non è citato quasi da nessuno (forse perché scritto in inglese e pubblicato all’estero, altri due fatti che dovrebbero far pensare).

Spallino. Se usabilità e progettazione sono due mondi diversi, perché la legge li accomuna? E perché rimanda per il metodo a una disciplina che non ne offre?

Acerboni. Non so risponderti. Come minimo c’è una certa confusione terminologica, cioè incertezza sul significato di certe parole. Però, lasciami sospettare che la confusione terminologica rifletta e nasconda un’approssimazione culturale. Il mondo del web può tenersi tutte le approssimazioni culturali che riesce a permettersi, ma che tali approssimazioni e le loro relative confusioni terminologiche divengano legge è molto preoccupante. Da cittadino sono preoccupato che la politica abbia bisogno di approssimazione culturale; da professionista mi domando come si possa interpretare questa legge, e dunque rispettarla. Ed è questo il punto che giustifica questo articolo e i precedenti sullo stesso tema.

Spallino. Non è che qualcuno ha proprio attribuito alla parola ‘usabilità’ il significato di ‘progettazione efficace’?

Acerboni. Non lo so, bisognerebbe chiederlo a chi usa la parola usabilità come sinonimo di ‘buona progettazione’. Se così fosse, ho tre osservazioni. La prima. Fra i vari meccanismi di generazione di neologismi c’è anche quello di attribuire un significato nuovo a una parola esistente (rideterminazione o ridefinizione). Dunque, se un sito progettato bene è utilizzabile facilmente (ma un buon sito è anche funzionante, accessibile, leggibile, affidabile, credibile, gradevole ecc.) possiamo definirlo ‘usabile’, dal momento che l’usabilità è in qualche modo coinvolta nel processo di realizzazione di un sito (soprattutto se i progettisti fanno fare i test di usabilità). è dunque una parola a portata di mano, comoda, mi vien da dire ‘usabile’, cioè ‘pronta da usare’ con un nuovo significato. La seconda. Siccome però la parola ‘usabilità’ non è ancora stata concordemente recepita dai dizionari, usarla non aiuta certo a fare chiarezza, e tanto meno se la si usa con un significato diverso da quello che ha (vedi ISO), e per giunta con un significato nuovo. La terza, che anche se ‘usabilità’ venisse intesa come ‘buona progettazione’ vorremmo tutti sapere da chi la usa cosa intende per ‘buona progettazione’. è davvero esasperante questo circolo vizioso per cui la buona progettazione produce un sito usabile e l’usabilità è la scienza della buona progettazione. Mi piacerebbe avere contenuti, in particolare un metodo di lavoro per progettare un sito... usabile.

Spallino. Hai qualche proposta?

Acerboni. Partiamo pure dal consiglio che chi si riferisce all’usabilità fa o si sente dire, cioè il consiglio di fare un sito semplice da usare, che bisogna progettare nell'ottica del destinatario.. è un buon consiglio, naturalmente, ma troppo... semplice. Ci vuole un metodo per fare un sito semplice. Costruire un metodo significa fornire a chi progetta un modello di riferimento che classifichi i vari problemi per categorie e offra una soluzione comunicativamente efficace, cioè in grado di tenere insieme tutti gli aspetti (anche quelli stilistici) e tutti gli scopi. Sembra un problema preliminare, eppure questo è il punto, perché i siti italiani sono fatti, generalmente, senza metodo. Ciò accade perché ai siti italiani (a quelli della pubblica amministrazione meno che a quelli privati) manca in primo luogo la cultura della comunicazione, in secondo luogo la cultura editoriale e in terzo luogo la cultura editoriale digitale. Ciò, a sua volta, accade, a mio parere, perché la comunicazione sul web è nata e si è sviluppata sul campo, grazie a molti professionisti (penso soprattutto ai grafici, agli informatici, ai giornalisti) in possesso di competenze importanti ma parziali, che dunque hanno improvvisato, in particolare laddove uscivano dal loro campo. Solo da pochi anni si sta affermando la figura del progettista, ma è difficilmente definibile, anche perché manca un curriculum di studi (il quale a sua volta manca perché...). Che manchi questa figura si vede. Persino nei siti importanti, come il “Corriere” o, peggio ancora, “La Repubblica” o la Banca d’italia. Si vede che hanno tante cose da dire ma che non sanno dirle sul web (c’è poi anche un problema di scrittura, ma lasciamo perdere).

Spallino. Da cosa si vede?

Acerboni. L’errore più diffuso è l’autoreferenzialità della comunicazione. Cioè, per fare un esempio, una classificazione dei contenuti secondo una logica a) spesso poco coerente; b) che riflette la logica del progettista o la struttura dell’organizzazione; c) non corrispondente alla logica o meglio alle infinite logiche dei navigatori. In altri termini, non si capisce mai per chi il sito è semplice, oppure si capisce benissimo che per qualche destinatario è semplice e per altri è complicato. Un sito, in particolare un sito della pubblica amministrazione, deve essere semplice per tutti i destinatari, cioè per chi cerca qualcosa che c’è e per chi cerca qualcosa che non c’è; per chi giunge per la prima volta e per un navigatore abituale; per un cieco e per un anziano e via dicendo. Io sostengo che, in un sito, qualsiasi informazione deve essere reperibile in un clic da qualsiasi punto del sito. Un solo clic mi pare rispettoso dell’efficacia e dell’efficienza. Meno di un clic non si può. Di più è peggio. Dunque io dico: un sito usabile è quello nel quale con un solo clic da qualsiasi punto del sito si accede a qualsiasi informazione, o si verifica che quell’informazione manca.

Spallino. Come si fa? E come si fa a insegnarlo a un progettista?

Acerboni. Per usare la terminologia dell'usabilità il 'tutto in un clic' è la mia euristica. Il metodo per ottenere questo scopo l'ho descritto nel libro Progettare e scrivere per internet. Qui posso dire che per ottenere il ‘tutto in un clic’ bisogna separare la struttura del sito (che deve essere fatta in un certo modo, secondo quattro livelli di profondità logica) dalle logiche di navigazione (che sono diverse da navigatore a navigatore). Quanto a insegnarlo a un progettista, mettiamo cresciuto sul campo, mettiamo all’interno di una pubblica amministrazione, è un altro discorso, che se affrontassimo come meriterebbe non finiremmo più questo articolo. Nella mia esperienza, vedo che quando si parla di web si danno per scontate moltissime cose. Quindi, direi che la difficoltà maggiore di un docente è far ragionare i progettisti sulle cose a proposito delle quali i progettisti pensano di non dover più riflettere.

Spallino. Torniamo al Codice dell'Amministrazione digitale, che fissa il principio dell’usabilità e quant’altro. Se saranno i magistrati ad applicare direttamente il Codice, senza il filtro delle disposizioni attuative, quali saranno i sistemi oggettivi per definire un sito non usabile? Insomma: se tu fossi un consulente del giudice, come ti comporteresti?

Acerboni. Dato il significato generico di ‘efficienza’ e di ‘efficacia’ (per non dire di 'soddisfazione') è impossibile stabilire criteri oggettivi per la loro valutazione. La variabile più importante è il contesto, in particolare uno degli elementi del contesto, cioè il destinatario. Consideriamo per esempio questo articolo. Questo articolo vorrebbe essere efficace nei confronti di quegli italiani che si occupano di progettazione di siti web. Ma se lo legge un progettista francese o un ragioniere o un operaio pensionato o uno straniero immigrato l’articolo non può ottenere lo stesso livello di efficacia. Per loro sfortuna i siti dell’amministrazione pubblica (o almeno la grande maggioranza) si rivolgono a tutti, compresi i minori, gli stranieri e, appunto, i disabili. Rivolgendosi a tutti, hanno destinatari così diversi che è impossibile che il sito sia efficiente ed efficace per ciascuno dei visitatori. Se dunque fossi il consulente di un giudice gli direi che misurare oggettivamente l’usabilità di un sito della pubblica amministrazione è un falso problema e che il problema vero è che è oggettivamente impossibile realizzare un sito usabile per la pubblica amministrazione (soprattutto se tramutiamo l'usabilità in una parola magica). Naturalmente le soluzioni ci sono, ma per trovarle e realizzarle bisogna prescindere da concetti generici e bisogna evitare di dare per scontate cose che scontate non sono.

Spallino. Nel Codice dell’Amministrazione digitale, nonché in vari documenti collegati alla legge Stanca, si parla di reperibilità, completezza di informazione, chiarezza di linguaggio, affidabilità, semplicità di consultazione, qualità, omogeneità ed interoperabilità dei siti. Cosa significano?

Acerboni. Confesso che non capisco bene tutte le parole di questa lista. Per quanto riguarda la ‘reperibilità’ non capisco se si intenda la reperibilità del sito o la reperibilità dei suoi contenuti. Se si intende la prima, non capisco la necessità di un articolo di legge: i siti dell’amministrazione pubblica hanno o dovrebbero avere un indirizzo costruito in modo analogo, il che dovrebbe facilitarne l’individuazione da parte del navigatore e dei motori di ricerca. In ogni caso, non mi pare un grande problema, ed è comunque un problema di ordine tecnico (come anche l’interoperabilità, l’affidabilità e l’omogeneità). Se si intende la seconda, allora la questione è seria, ma la formulazione doveva essere più chiara e soprattutto indicare alcuni parametri di riferimento. Per esempio, io dico nel mio libro che è possibile reperire qualsiasi informazione da qualsiasi punto del sito in un solo clic. Dico anche come si fa. Nel Codice non si dice nulla. Lo stesso discorso vale per la ‘semplicità di consultazione’. Che significa? è troppo relativo, soggettivo. Per ogni progettista il proprio sito è semplice da consultare. Ogni scarafone è bello a mamma sua. Che, poi, una generica ‘qualità’ sia stabilita per legge è rassicurante, per il cittadino, molto meno per un responsabile della comunicazione di una pubblica amministrazione. Che significa? Il vino, per essere vino, deve avere una gradazione minima stabilita per legge. E un sito che gradazione deve avere?

Spallino. E la ‘completezza dell’informazione’ e la ‘chiarezza del linguaggio’?

Acerboni. Sulla ‘completezza dell’informazione’ e sulla ‘chiarezza del linguaggio’ il discorso potrebbe farsi molto lungo. Semplificando, il Codice dell’amministrazione digitale si riferisce implicitamente al tema della trasparenza e al progetto di semplificazione del linguaggio amministrativo, avviato nel 1992 dall’allora ministro della Funzione pubblica Sabino Cassese (Ciampi Presidente del Consiglio). Questo progetto intende eliminare il ‘burocratese’ e sostituirlo con un linguaggio comprensibile da parte del cittadino. Lo scopo è dunque ottimo. Ma, nuovamente, non esiste in assoluto la ‘semplicità del linguaggio’, come spero ‘completezza dell’informazione’ non significhi ‘tutta l’informazione’ (altrimenti si torna alla questione della trasparenza, che è cosa ben diversa dalla chiarezza). Anche in questi casi, cioè, siamo in presenza di concetti relativi ai singoli contesti di validità dei singoli siti. Comunque, un altro elemento positivo è che, rispetto ad altri cosiddetti principi di usabilità, la chiarezza del linguaggio e la completezza dell’informazione sono in buona parte misurabili oggettivamente. Cioè, dato un contesto, e in particolare dato un certo destinatario, è possibile stabilire se il testo è informativamente adeguato e linguisticamente comprensibile. E se non lo è? Castigheremo i funzionari che commettono errori di grammatica o che scelgono un termine troppo difficile o che non traducono una parola inglese o che dicono una cosa ovvia o che si dimenticano di mettere la data di scadenza di un bando? Se pensiamo che tali errori, misurabili oggettivamente, possono facilmente distruggere l’accessibilità di un sito poiché cambiano il senso delle parole (o addirittura lo negano), qualche sanzione per chi scrive scorrettamente in italiano ci dovrebbe effettivamente essere. Se seguiamo questa logica, che è la logica della legge Stanca non la mia, io vedo apparire in lontananza una specie di Accademia della Lingua italiana sulla falsariga dell’Académie française che stabilisce per legge quali parole usare e quali no. Meglio lasciar perdere. Anzi, è meglio impostare diversamente la questione della chiarezza del linguaggio, cioè riferirla a contesti precisi, a registri e a modelli testuali efficaci in quei contesti.

Spallino. Torniamo alla legge Stanca: c’è un punto che non viene mai discusso nelle liste, dove in genere ci si accapiglia sui 22 requisiti o sulle disposizioni squisitamente giuridiche. E sono i famosi 12 “Criteri di valutazione” elencati nell’allegato B Metodologia e criteri di valutazione per la verifica soggettiva dell’accessibilità delle applicazioni basate su tecnologie internet del decreto 8.7.2005.

Acerboni. Credo che si parli poco di questo documento perché la verifica soggettiva non riguarda le pubbliche amministrazioni, ma solo i soggetti che, pur non essendo tenuti al rispetto della legge, desiderano rispettarla. Nell’articolo Accessibilità e soggettività nella legge Stanca, pubblicato in questo stesso sito, ho già discusso questo documento. allora consideravo che i 12 criteri di valutazione mancavano di coerenza con il titolo stesso del documento, perché “salvaguardia della salute”, “sicurezza” e “tolleranza agli errori” sono stati classificati a sproposito tra i requisiti “soggettivi” (infatti riflettono soprattutto il modo in cui vengono realizzati i requisiti “tecnici”). Gli altri nove requisiti sono indubbiamente soggettivi (ma il documento confonde la ‘coerenza’ con la ‘coesione’, e attribuisce alla ‘comprensibilità’ alcuni concetti propri dell’’apprendibilità’) e devono dunque essere valutati all’interno del contesto. In ultima istanza il documento Metodologia e criteri di valutazione per la verifica soggettiva dell’accessibilità delle applicazioni basate su tecnologie internet non serve a niente e a nessuno, tranne che come termine di paragone per un ragionamento diverso e nuovo e finalmente in positivo. Occhio alle date. La Metodologia è stata pubblicata in via definitiva l’8 luglio 2005, ma senza modifiche rispetto alla versione di lavoro che circolava già almeno dal dicembre 2004 (a questa versione si riferiva il mio articolo). Dunque, questo documento appartiene culturalmente al 2004. è importante precisare queste date perché il 27 luglio 2005 il Ministero pubblica la Direttiva per la qualità dei servizi on line e la misurazione della soddisfazione degli utenti) che è culturalmente molto più avanzato di tutti i documenti precedenti (e non è possibile che questo scarto culturale il Ministero lo abbia compiuto in meno di venti giorni dall’8 al 26 luglio). Questa Direttiva, infatti, finalmente, dice delle cose utili a chi fa i siti. Dice, per esempio, che è un buon sito quel sito che realizza, tra le tante altre cose:

Finalmente, il Ministero dice che cosa intende per usabilità (tra l’altro, guarda caso, usando la parola ‘usabilità’ una sola volta, alla penultima riga e in senso proprio). è un passo avanti epocale, del quale mi compiaccio da cittadino prima ancora che da autore di un libro che descrive nel dettaglio come si possono ottenere questi obiettivi (per evitare fraintendimenti, dirò che il mio libro è uscito sei mesi prima di questa Direttiva e che io non sono e non sono mai stato consulente del Ministero).

Spallino. Ma come? Concludiamo in positivo?

Acerboni. Questa volta sì. Tuttavia, per non perdere le nostre buone abitudini critiche, dirò che c’è un punto della Direttiva (6. La qualità dei servizi on line) che mi lascia perplesso: una certa confusione a proposito della multicanalità. Non sono riuscito a capire se induce le amministrazioni a gestire su canali diversi lo stesso contenuto (il contenuto non cambia al cambiare del canale), a modificare il contenuto al variare del canale o a inviare un certo contenuto soltanto su un canale. Non è una questione di poco conto, soprattutto se pensiamo che, mentre il Codice dell’Amministrazione Digitale si riferisce solo a Internet, la comunicazione digitale non è solo via internet. Ci sono pubbliche amministrazione che già usano gli sms. Se la direzione è la multicanalità, il problema di quale contenuto in quale modo in quale canale non può essere affrontato superficialmente. Sarà materia di riflessione nei prossimi mesi, magari anche per noi.Inizio articolo

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Webimpossibile [http://www.webimpossibile.net/]è un progetto di Giovanni Acerboni e Lorenzo Spallino. Nato nel maggio 2004 per ragionare pubblicamente sullo stato del web, contiene riflessioni e spunti su internet, cultura e diritto. Aggiornamenti del sito vengono segnalati attraverso una newsletter a pubblicazione non periodica. Condizioni di utilizzo alla pagina http://www.webimpossibile.net/cpright.htm.